Nelle nostre riflessioni sul cibo nel cinema non potevamo trascurare quei film, appartenenti soprattutto a epoche del passato, in cui l’atto stesso del mangiare è vissuto in maniera spasmodica, sia che il personaggio in questione sia un ricco i cui banchetti sono opulenti e strabordanti, sia che si tratti di un povero diavolo il cui obiettivo della giornata è mettere insieme pranzo e cena. Nel secolo scorso, infatti, (ma anche nei precedenti, perché come vedremo alcuni di questi film sono in costume) gli anni devastanti della guerra con l’inevitabile conseguenza della mancanza dei generi alimentari di prima necessità, ma anche con storie di vita vissuta, come la realtà di fare la spesa razionata mediante la tessera annonaria, hanno segnato un ‘epoca che a sua volta ha segnato un’epoca sul grande schermo, in cui è stato rappresentato da una parte il cibo vissuto come status symbol da coloro i quali non hanno mai patito la fame, dall’altra il cibo come chimera, sogno, quasi miraggio per chi, invece, l’indigenza era la condizione quotidiana. In entrambi i casi si tratta di eccessi, e le pellicole che li rappresentano sono spesso forti, crude, amare… come il cibo che vi si rappresenta.
La febbre dell’oro
Fu proiettato per la prima volta nel 1925 questo capolavoro muto di Charlie Chaplin che in effetti non ha bisogno di parole per descrivere la situazione di estrema povertà in cui versa il personaggio del vagabondo – comune ai film di Chaplin e qui protagonista – che spinto dalla fame sfida il freddo gelido dell’inverno e s’imbatte nel mondo spregiudicato dei cercatori d’oro d’inizio secolo. Celeberrima la scena in cui per ‘festeggiare’ il Natale il vagabondo arriva perfino a friggere una scarpa; espediente che non servirà comunque a saziare il compagno Giacomone, che in preda alle allucinazioni da fame, scambierà il suo compagno per un pollo.
Miseria e nobiltà
È un’altra storia di miseria – appunto – quella cui dà vita nel 1954 Totò interpretando lo squattrinato napoletano Felice Sciosciammocca che vive alla giornata e vive in una casa con altre 5 persone, e non tutte di famiglia. Assieme all’amico Pasquale viene assoldato da un giovane marchese che vuole sposare la figlia di un cuoco arricchito, per interpretare i suoi ricchi parenti, che ovviamente non acconsentirebbero mai a un matrimonio con una giovane di ceto inferiore. L’incontro avverrà a cena, peccato che i due poveri diavoli soccombano a giorni e giorni di fame arretrata e arrivino addirittura a ficcarsi gli spaghetti in tasca…
Un americano a Roma
Sempre nel 1954 Alberto Sordi girava, invece, questa pellicola diventata un vero e proprio cult anche per chi non ama i vecchi film. Nando Mericoni è un giovanotto di Trastevere che sogna di sfondare in America grazie al suo tip tap. Scena indimenticabile quella del ‘monologo’ con il maccherone che rivela tutta la povertà – d’animo e non solo – del protagonista che, noi lo sappiamo, in America non arriverà mai e dovrà quindi accontentarsi di quello che ha, pur essenziale e senza fronzoli, al di qua dell’oceano.
L’audace colpo dei soliti ignoti
Ancora dopoguerra, ancora poveracci che cercano, come possono, di sbarcare il lunario: siamo a Roma e Peppe ‘er Pantera’ viene assunto da un gangster milanese per rapinare il furgone del Totocalcio. Capitolo due di un masterpiece della saga degli equivoci, pur orfano di Totò e Mastroianni, questo film guadagna però Manfredi nei panni di “Piede amaro”. A noi, però, in questa sede interessa però un altro membro della banda, il sempre affamato Capannell, che durante un furto non saprà resistere alle leccornie che trova e alla fine morirà d’indigestione: un “infarto de panza” lo definirà la proverbiale lapidarietà tipica del romanesco.
La ricotta
Nel 1963 esce uno sfortunato film dal singolare titolo Ro.Go.Pa.G. che altri non è se non l’acronimo dei quattro registi degli altrettanti episodi che lo compongono (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti nda). Brilla come una perla, però, l’ultimo episodio, quello firmato Pasolini e intitolato, appunto, “La ricotta”. Il set di un film attira sbandati, borgatari e poveracci in cerca di una comparsata per fare giornata e mettere qualcosa sotto i denti: così anche Stracci, che riesce a ottenere il ruolo di uno dei due ladroni. Peccato che durante una pausa delle riprese, si getti con ferocia su una forma di ricotta lasciata incustodita e finisca per morire d’indigestione proprio sulla croce. Il film, potete immaginarlo, è denso di simbolismi e metafore.
Satyricon
Anche un maestro come Fellini toccò il tema del cibo come status symbol e lo fece in questo film ambientato nel I secolo d.C. che però sembra oggi. Encolpio e Ascilto, infatti, sono due parassiti che vivono di espedienti nella Roma di Nerone e che un giorno hanno la fortuna di trovarsi tra i poveri invitati dal patrizio Trimalcione a uno dei suoi proverbiali banchetti che dovevano essere luculliani e ambiti come le feste del grande Gatsby di fitzgeraldiana memoria.
La grande abbuffata
Siamo nel 1973; la guerra con i suoi stenti è ormai un ricordo, ma è proprio quest’anno che Marco Ferreri gira “il” film per eccellenza sul simbolismo del cibo. È la storia di 4 amici, un giudice, un pilota, un ristoratore e un produttore televisivo che decidono di riunirsi in una villa alla periferia di Parigi in cui mangeranno fino a suicidarsi. Una pellicola piena di humor nero, ma anche di tristezza, e di pena per questi personaggi che sembrano semplici epicurei annoiati dalla vita, ma in realtà sono disperati che non riescono a trovare un’alternativa.
Il senso della vita
Il più riuscito dei film del gruppo britannico Monty Python: una sequela di sketch irriverenti come non mai, tra cui spicca quello sulla gastronomia, che altro non è se non una parodia degli eccessi proprio di “La grande abbuffata” con tanto di vomitate, travestimenti elefantiaci e un impareggiabile cameriere che chiede se si gradisse ancora una mentina.
Foto | Thomas De Luca
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