Da noi è conosciuto soprattutto per lo sciroppo, ma tanto nella cucina asiatica che in quella latino-americana il tamarindo (o meglio la sua polpa) viene usato come spezia. Se siete mai andati in un ristorante indiano lo avrete assaggiato in uno di quegli intingoli che solitamente accompagnano gli antipasti: personalmente lo trovo molto squisito, con quel mix tra dolce e acidulo, aromatico e speziato.
Il tamarindo è anche noto come dattero dell’India e probabilmente giunse in Europa portato dai crociati. L’albero di tamarindo può superare i trenta metri di altezza e i dieci di circonferenza. I suoi frutti si possono mangiare freschi o secchi. In commercio solitamente lo si trova sotto forma di una polpa fibrosa, molto scura e pressata: è la cosiddetta pasta di tamarindo che deriva dalla buccia privata dei semi. Per essere utilizzata la polpa deve essere purificata in acqua bollente per una mezz’ora. Il liquido di questa purificazione può essere bevuto, ma con estrema cautela perché leggermente lassativo.
Troviamo il tamarindo nelle salse Worcester, nello Sambhar (zuppa di lenticchie indiana), in accompagnamento con il riso. È usato anche per i curry di carne o di pesce per via del suo gusto che è più forte sia del limone che del lime. Nei negozi specializzati lo si trova anche candito.
Volete provare a fare il famoso sciroppo di tamarindo? Ci occorrono: 50/70 g di pasta di tamarindo, 2 l di acqua, 3 cucchiai di zucchero, mezzo limone. Fate riposare per tutta la notte la pasta di tamarindo nell’acqua. Filtrate, unite lo zucchero e il mezzo limone a fettine, quindi portate a ebollizione e mescolate per 5 minuti. Lasciate raffreddare e filtrate nuovamente. Al momento di servirlo potete decorare con un rametto di menta, per rendere quest’acqua al tamarindo ancora più fresca e dissetante.
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