“S’i fosse foco, arderei ‘l mondo” diceva Cecco Angiolieri. E cosa farebbero tre personalità del mondo dell’enogastronomia senza paura di sporcarsi le mani? Questo è quello che scopriremo il 27 ottobre con la partenza del nuovo talent “I Re della Griglia” su DMAX (canale 52 DTT). I tre giudici Gabriele Rubini (a tutti noto come l’unto e bisunto Chef Rubio), lo chef Cristiano Tomei dell’Imbuto di Lucca e l’allevatore creativo Paolo Parisi valuteranno, istruiranno e sceglieranno tra i 9 concorrenti il solo e unico “Re della Griglia“, colui che meglio saprà domare il fuoco per un barbecue davvero perfetto.
Lo stesso Parisi ci ha avvisato:
“Per una serie innumerevoli di motivi l’uomo oggi ha bisogno di accendere il fuoco. Il fuoco è stata la televisione della preistoria: rimanevano incantati dalla fiamma dinamica e noi lo abbiamo perso e dobbiamo riaccenderlo. Oggi l’uomo ne ha bisogno, ha bisogno di riavvicinarsi al fuoco.”
In 6 puntate registrate presso la Cascina Calcaterra, vicino Milano, avremo modo di scoprire come ciò è stato fatto attraverso sfide e ospiti internazionali, fino ad arrivare alla proclamazione del vincitore, che accederà direttamente ai Campionati mondiali di Barbecue che si svolgeranno in Svezia nel giugno 2015. In attesa della prima puntata, ecco che cosa ci hanno svelato i giudici.
Intervista a cura di Vera Gheno e Patrizia Chimera
Gabriele Rubini, Cristiano Tomei e Paolo Parisi: i tre giudici di I Re della Griglia che tra poco andrà in onda su DMAX. A una prima occhiata non assomigliate ai giudici degli altri talent di cucina visti in tv. In cosa sarà diversa questa trasmissione? Vedremo qualche piatto volare?
G.R.: No, non ci saranno piatti che volano. Non è assolutamente una cosa che appartiene al nostro retaggio. Ci saranno, casomai, osservazioni più o meno ironiche sul lavoro svolto, con critiche quasi sempre unanimi. L’idea era proprio quella di fare un talent diverso da quelli già realizzati. Abbiamo cercato di fare uscire le personalità nostre e dei concorrenti, dando il giusto peso alla competizione. Stiamo parlando di cucina, e la cucina dev’essere piacere e condivisione. Se tiri un piatto per terra in cucina, figuriamoci come ti comporteresti nelle situazioni davvero serie!
C.T.: Il messaggio che vorremmo far passare che in cucina non si può essere sempre seri. Certamente in cucina vige una gerarchia, che in molte situazioni ha un senso, ma a tratti è forzata. Noi abbiamo cercato di non farla venire fuori, anche se all’occorrenza siamo anche stati severi. Uno dei miei precetti di base nella vita è che è importante essere ironici, e non prendersi troppo sul serio. Che è molto più difficile, da un certo punto di vista, che prendersi sul serio!
P.P.: Piatti volare non vedo proprio perché. Sono persone normalissime, appassionati che partecipano ad una sfida che può diventare accanita e agguerrita, ovviamente c’è la voglia di vincere e di prevalere. La cosa bella sarà che alla fine comunque questa sarà una squadra dalla quale emergere e vincere.
Quali sono i segreti di un buon barbecue? Come scegliere la carne e gli altri cibi giusti per una tale cottura?
G.R.: Dirò poco di “alimentare”. La risposta, per me, alla prima domanda, è: per un buon barbecue ci vuole una buona compagnia; magari della musica, se proprio vogliamo, ma in fondo è anche bello parlare. Lo spirito del barbecue è la cooperazione: tutti fanno qualcosa, dal marinare la carne al preparare il fuoco al versare la birra. Il barbecue è quello, non la carne in sé, ma quello che ci fanno le persone attorno. E abbiamo tentato di far passare questo concetto di condivisione anche nel nostro talent: anche se ti stai “battendo” per vincere la sfida, il sale al tuo antagonista lo puoi passare. La gara c’è, ma si lavora comunque tutti insieme.
C.T.: il barbecue è una tecnica tutto sommato primordiale: il succo è il controllo del fuoco, del calore. E questa è una competenza in cui l’esperienza è insostituibile. Esiste tutta una cultura “tecnologica” del barbecue, per cui si possono comprare termometri, altri oggetti raffinatissimi… che però non battono l’esperienza diretta, le bruciature, il sudore. Come in tutti i campi, anche in questo ci sono fanatici che sembra quasi vogliano rendere il barbecue una tecnica esclusiva. Ma acquistare tutti i gadget del mondo non vi renderà certo dei… re della griglia.
G.R.: La cucina in generale deve essere piacere: il piacere di scoprire sapori, profumi, consistenze. C’è qualcosa di più soddisfacente che toccare un pezzo di carne messo sulla griglia con le dita, per saggiarne la consistenza? Il termometro, alla fine, come può sostituire il rituale quasi primordiale del barbecue? Anche noi, in fondo, non abbiamo “studiato la tecnica” del barbecue. Siamo persone che hanno semplicemente fatto tanta esperienza diretta. A suon di scottature, non di termometri.
C.T.: Il problema è che spesso, in cucina, si dimenticano le cotture di base. I ragazzi fanno le accademie, poi li prendi in cucina e non sanno fare le cose più semplici. E questo è un grande equivoco di come si concepisce la cucina ai giorni nostri. Ne abbiamo avute varie riprove durante la nostra trasmissione… ma non possiamo dire di più su questo.
G.R.: I concorrenti in gara spesso erano assolutamente certi dei loro mezzi, avevano certezze spesso inoppugnabili; in alcuni momenti, li abbiamo criticati a causa di questo atteggiamento un po’ miope; a tratti invece, li abbiamo incitati e rafforzati nelle loro convinzioni. Occorre però rimanere sempre aperti a imparare dagli altri.
P.P.: Bisogna conoscere molto bene il fuoco che si sta per accendere, bisogna sapere che il fuoco ha una fase ascendente e una fase discendente. Sono due fasi nettamente distinte: nella prima fase c’è il calore che pompa, la temperatura sale, è una fase molto dinamica. La seconda fase è statica, invece, Ci sono cibi che vanno cotti nella prima fase e altri che vanno cotti, invece, nella seconda fase. La carne rossa, ad esempio, va cotta nella fase ascendente, mentre il pesce come il baccalà nella fase discendente. La prima fase si riconosce perché la brace è rossa, mentre nella seconda fase si brina di bianco. Il fuoco e la brace non si possono condizionare, si tratta di un processo fisico, non è come un forno con cui ti basta girare la manopola e puoi cambiare la temperatura, siamo noi che dobbiamo cogliere l’attimo giusto. La carne, poi, deve essere più rossa e grassa possibile: deve essere rossa perché è questa la carne con la qualità migliore, che contiene più fibra e che ci dice che si tratta della carne animale di una certa età che ha un certo sapore, ma deve anche essere grassa perché cuocendo sulla griglia deve rilasciare i liquidi interni, che altrimenti rimarrebbero dentro, rendendo la carne morbida e non asciutta.
Nel mondo della carbonella, quanto è importante la mise en place?
G.R.: L’unica mise en place che serve, secondo me, è la preparazione mentale della sequenza giusta con cui fare i vari passaggi richiesti. Ma ripeto, noi volevamo che ci fosse un ritorno a qualcosa di quasi primordiale: una tecnica alla fine semplice e immediata per cucinare pietanze. Tutto il resto, le leccornie e le salsine di contorno, sono un’aggiunta, un di più. Il massimo risultato per noi sarebbe riuscire a comunicare una specie di ABC delle fonti di calore rispetto alle materie che ci vogliamo mettere sopra.
C.T.: Quando prepari un barbecue, hai un ventaglio amplissimo di materie prime offerte dalla natura. Sono tutte cose belle: un pezzo di carne è già bello, grigliato bene è un po’ più bello. La mise en place può essere magari la scelta di appoggiarlo su un tagliere invece che su un piatto, ma non di più. Protagonista solista è ciò che abbiamo preparato sulla griglia. E ricordiamolo: il barbecue è una tecnica di cottura molto versatile. Con un barbecue si può fare la maggior parte di quello che si fa anche in cucina, e viceversa, per esempio la cottura a bassa temperatura o l’affumicatura. Il barbecue e la cucina non sono antagonisti, ma, volendo, alleati.
G.R.: Il problema, in Italia, è che negli anni Ottanta è prevalsa una mentalità a fazioni: quelli di sala contro quelli della cucina, quelli della cucina contro quelli del barbecue e così via. In realtà, secondo me, la cucina è una sola e tutti i suoi aspetti sono vasi comunicanti. Occorrerebbe smettere di ragionare in termini di scontro per imparare piuttosto a cooperare. Il nostro, in fondo, è un tentativo di elogio a un mondo che in Italia è stato trattato con superficialità, mentre ci sono altri paesi nel mondo che della griglia hanno fatto il loro cavallo di battaglia: mi viene in mente il yakitori giapponese, che è quasi l’arte di mettere una gran varietà di ingredienti sullo spiedino.
C.T.: Io vorrei però ricordare che Asador Etxebarri, il ristorante di un “re della griglia” basco, è da diversi anni sulla lista dei 50 migliori ristoranti del mondo. E anche io qui all’Imbuto griglio cose, ispirandomi per certe cose al barbecue… tutto questo mentre in Italia, in linea di massima, quando si pensa alla griglia si pensa alla griglietta in terrazzo, dove magari, a forza di distrarsi a sbevazzare, si fa carbonizzare tutto… e invece la grigliata è un’arte meravigliosa. La gente, invece, va al ristorante e pensa che la tagliata sia una cosa gustosa. La tagliata è il male! Affettata fine perché sia mangiabile, soffocata di rucola, pachino, scaglie di grana, o, ancora peggio, condita con l’olio. Alla fine, con tutta quella roba sopra, la carne non conta più!
G.R.: E allora grigliamo una ciabatta, poi tanto condita così viene buona pure quella… Purtroppo ci sono sempre meno persone che fanno questo lavoro per passione e non per mero business. Il business si porta dietro un sacco di negatività. Non c’è amore per la materia prima, se c’è interesse primariamente per il profitto.
C.T.: E poi ci sono un sacco di norme fin troppo restrittive. Ad esempio, avere una brace a legna in cucina è proibito per ragioni igieniche…
G.R.: …e poi la gente frigge con l’olio di palma, che fa molto più male del pezzettino abbrustolito sulla carne!
C.T.: Insomma, vorremmo far capire alle persone – con ironia, non con pesantezza! – che ci vuole qualità sin dall’inizio. Se grigli una carne schifosa, non verrà fuori niente di buono. Purtroppo oggi le persone tendono a essere un po’ anestetizzate: mangiano ma non gustano, sentono ma non ascoltano, vedono ma non guardano. Per un’esperienza culinaria veramente coinvolgente, invece, occorre tutto questo.
P.P.: La mise en place è importante per quanto lo vogliamo noi, siamo noi a scegliere. Deve essere, ovviamente, in linea con lo stile con cui si fanno le cose: una mise en place rustica e spartana è in linea con il mondo della carbonella, ma deve essere fatta con un certo stile. Anche l’occhio vuole la sua parte.
Quali sono gli elementi che vi hanno portato a premiare o eliminare i concorrenti?
G.R.: Dal mio punto di vista, considerando che le eliminazioni sono di volta in volta, hanno contato molto l’umiltà e l’eleganza nel raccontare se stessi. E soprattutto, il rispetto della materia prima che i concorrenti avevano di fronte. Quelli che l’hanno trattata con rispetto, e l’hanno distrutta di meno, secondo me sono stati i migliori. Ciò non toglie che talvolta io abbia giudicato qualcuno in un modo all’inizio, cambiando idea nel corso della trasmissione. A volte noi giudici siamo stati smentiti, altre volte abbiamo avuto delle delusioni.
C.T.: Siamo stati molto liberi nei giudizi; abbiamo cercato di essere oggettivi, valutando anche il percorso fatto da ognuno dei concorrenti. Ciò non toglie che, esattamente come nella lingua, ci siano dei veri e propri errori “grammaticali” anche in cucina. Su quelli non si può transigere: se mi fai cruda una cosa che dev’essere cotta, hai proprio sbagliato, senza appello.
P.P.: Io sono partito da un concetto: non mi piaci per quello che sei, ma mi piaci per quello che vuoi. Io ho tenuto conto di questo principio: una persona può essere indietro, non ancora pronta o preparata, ma al tempo stesso essere una persona che fa vedere che vuole tanto, che ha un bel disegno nella propria testa, che ha potenzialità. E questo è molto importante. Io ho premiato questa attitudine.
Quali sono i falsi miti e gli errori in una cottura alla brace? Quali gli errori più catastrofici che avete visto fare ai concorrenti?
G.R.: falsi miti non ne ho riscontrati, le persone erano consapevoli di quello che stavano facendo. Il mito è uno solo: che ci sia sempre un’unica soluzione per qualsiasi cosa. E invece il bello è che non è così, ma che talvolta in cucina si fa esattamente il contrario di quanto si intende come “dogma culinario”. Esempio: si dice che la carne non vada salata prima della grigliatura, al che io ti rispondo che dipende dal tipo di carne, dipende dall’effetto che vuoi ottenere, dipende da un sacco di cose! Le persone ricercano l’unica risposta giusta, ma questa non esiste quasi mai: ne esistono molte. E occorre avere l’apertura mentale e, appunto, l’umiltà di imparare cose nuove, per tutta la vita.
C.T.: Succede a volte, per dire, che il burro diventi un elemento che ti pulisce la bocca: quasi un paradosso. Ci sono regole base, come dicevamo prima, ma la cucina e il barbecue sono cose libere. Citando Gaber: libertà è partecipazione. E dalla partecipazione si impara di più.
G.R.: Quello che chiediamo anche a noi stessi è conoscere le cose prima di esprimersi, senza arrivare mai a dei dogmi, che sono dannosi. E ricordarsi che si impara per sempre, per tutta la vita.
C.T.: Non parlerei quindi di falsi miti o errori madornali. Per me è stata un’esperienza istruttiva, e non solo di giudice che deve giudicare. Ho acquisito competenze che posso riusare in ristorante e nella vita di tutti i giorni. Purtroppo questo, che sarebbe l’atteggiamento più saggio nei confronti della conoscenza, è poco diffuso. Le persone non amano mettersi in discussione, manca spesso l’umiltà per farlo. Questo è ovviamente un approccio sbagliato anche in cucina…
P.P.: Noi avevamo dei concorrenti eterogenei. Un errore grosso con la cottura alla brace è quello di sfruttare troppo le caratteristiche che ti dà la brace stessa: il fumo non deve essere troppo invadente perché copre troppo i sapori degli alimenti. La brace deve trasmettere sapore al cibo, ma non bisogna approfittarne. Tu hai in mano un arma letale, la brace e il fuoco, che vanno usati con attenzione e cautela. Un errore molto grave, poi, è bruciare il cibo che vai a cuocere sulla brace: bisogna stare concentrati sul cibo, mai staccare gli occhi dal fuoco.
Cristiano Tomei, come è stato fare un talent? Come è stato portare (o piegare?) la propria cucina e modalità di lavoro in un contesto televisivo dai tempi e ritmi serrati? Quali segreti hai svelato e quali avresti voluto svelare ma non hai avuto tempo? Come è stato lavorare con Rubio che ha già alle spalle due stagioni de “Unti e Bisunti” e una da “Il cacciatore di Tifosi”?
C.T.: È stata un’esperienza bellissima. Inizialmente l’ho presa alla leggera, un po’ sotto gamba. Ma sì, facciamo un talent. E invece ho trovato un gruppo bellissimo, mi sono trovato molto bene e, da curioso quale sono, ho imparato cose nuove. Avevo avuto precedenti esperienze televisive, ma questo mese con Rubio è stato un inferno: sopportarlo, una vera impresa… ma no, sto scherzando! Rubio è stato una bella scoperta. Conoscerlo ha smentito tante malelingue che avevo sentito sul suo conto: ho incontrato una persona umanamente molto ricca, e soprattutto umile e desiderosa di imparare. Questo ha fatto sì che io… riuscissi a non perdere le staffe troppo spesso durante le registrazioni! Noi ci siamo divertiti molto, e credo che anche l’approccio con i concorrenti sia stato sufficientemente leggero. Certo, osservando i concorrenti ci siamo resi conto che in quella situazione le persone possono anche soffrire moltissimo. Quindi ogni approccio va calibrato: a tratti si può essere provocatori, perfino sadici; poi, in altri momenti, occorrono anche le carezze e gli incitamenti. Per il resto, io non ho segreti. Per me, un cuoco che ha segreti è un c***one. Perché mai dovremmo avere segreti? Io mi vedo come un dispensatore di felicità: per cinque minuti, finché assaggia una mia pietanza, la persona per cui ho cucinato è felice. E questa è la nostra funzione: cucinare per gli altri è un privilegio.
Gabriele Rubini, sei uno chef errante che viene dalla scuola del maestro degli chef, Gualtiero Marchesi. Ma di te finora abbiamo visto in tv una parte che poco si accosta agli altri allievi di Gualtiero Marchesi, una parte più rustica e meno da alta cucina blasonata. Come è stato trovarsi a diventare a tua volta “maestro” dei concorrenti? Quali segreti hai svelato?
G.R.: Non mi considero allievo di Marchesi in senso stretto, perché personalmente l’ho incontrato solo il giorno della consegna dei diplomi. Io sono allievo di tutte le persone che ho incontrato, di tutti i docenti con cui ho avuto a che fare e anche di tutti i miei compagni di studi. Ed essere considerato “maestro” non mi piace. I concorrenti, a mio giudizio, erano tutti molto più preparati di me sul barbecue, e quindi ho lasciato il passo a loro. Io non ho fatto da maestro ma da osservatore e spirito critico. Sulla questione dei segreti in cucina, io e Cristiano la pensiamo allo stesso modo: i segreti in cucina sono segreti di Pulcinella. Possono funzionare solo se intorno c’è una grande ignoranza: allora uno può anche fare il “guru” culinario e apparire credibile.
C.T.: Un cuoco non è un artista, ma un artigiano. Il cuoco è uno che conosce le sue radici; ma è errato considerare i nonni o i genitori come radici. Il cuoco si fa in strada, con esperienze di vita, alcol, droga, scazzottate, eventi belli e brutti. Questo è ciò che ogni cuoco dovrebbe conoscere, guardando sempre avanti ma vivendo nel presente. Non ha senso, ad esempio, preparare un piatto “concettuale” che magari verrà capito dopo quindici anni. Un piatto può essere pensato quanto ti pare, ma se non viene capito, tu, come cuoco, hai fallito. In un certo senso, il cibo è come il sesso, con una enorme parte istintiva. Per questo il nostro lavoro è così difficile… Oggi invece la cucina viene spesso considerata come un bel volo filosofico. Ma ricordiamolo sempre: la tecnica è un mezzo, non può mai essere il fine.
Paolo Parisi, come affermi dalle pagine del tuo sito, sei un creativo. Ti sei reinventato da rappresentate di apparecchiature mediche e sei diventato un allevatore e gourmet, è celebre la tua reinterpretazione dell’uovo. Hai visto in qualche concorrente la stessa passione e creatività? Credi che le persone che partecipino ai talent siano spinte da questo fuoco o che stia prevalendo troppo la voglia di apparire?
P.P.: La voglia di apparire non può che essere conseguente a un tentativo di riscatto della propria vita. Di certo quando si parla di passione è quasi insita la voglia di emergere: questa persona ha voglia cambiare vita, ha voglia di qualcosa di diverso da quello che è il mondo che lo circonda, da quello che è il mondo dove è nato. A me è successo così: ero cittadino e volevo andare a vivere in campagna, non sapevo niente ma la cosa mi è riuscita. E’ un po follia, che poi dopo si è realizzata. Tra i concorrenti effettivamente c’è stata una persona che si apettava un grandissimo riscatto, ma non posso dirti molto di più, ovviamente.
Quale è per voi quello che viene chiamato “comfort food”? Quale è il piatto (anche non alla griglia) che vi rimette in pace col mondo?
G.R.: (ride) Io sono come un gabbiano: mangio di tutto. Quando sono triste e ho bisogno di comfort food, semplicemente mi guardo intorno. Qualcosa che mi piaccia lo trovo sempre!
C.T.: Per me il vero comfort food è trovare una tavola e il tempo di mangiare con calma… paradossalmente, chi lavora in cucina quasi mai riesce a godersi il cibo.
P.P.: Ne ho due di piatti che possono essere definiti comfort food, sono due ricette che faccio spesso e che le considero fondamentali. Io ho un concetto di cucina che cerca di valorizzare cose banali e comuni in maniera perfetta e maniacale: per questo scelgo l’uovo al tegamino, da mangiare direttamente dal tegamino (ed è possibile cuocerlo anche sulla brace) e la pasta al pomodoro.
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