Può sembrare una fissazione da esaltati, da persone che non si sanno godere la vita e che vogliono rovinarla agli altri, ma non è così: il cibo, volenti o nolenti, è un atto politico che va compiuto in maniera consapevole, non senza sapere cosa ingurgitiamo. E finché continueremo a far finta che quello che abbiamo nel piatto spunta dal nulla, non saremo mai in armonia.
Armonia: questa è la parola chiave da avere sempre presente e che Will Tuttle, che nel 2007 ha ricevuto il prestigioso Courage of Conscience Award di The Peace Abbey, declina in molti modi nel suo libro, Cibo per la pace. Mangiare in armonia con sé stessi e con tutti gli esseri viventi, finalmente disponibile per il mercato italiano con la traduzione di Marta Mariotto nel catalogo di Sonda editore.
Il cammino che ci propone Tuttle è fondamentalmente semplice, eppure difficile da compiere per molti: riconoscere i legami fra il cibo che mangiamo e le operazioni che l’hanno portato sulle nostre tavole; i legami che ci sono tra quello con cui ci nutriamo e i condizionamenti con cui ci approcciamo a esso quando lo comperiamo, lo cuciniamo e lo consumiamo. Non riconoscere questi legami, vuol dire non vivere in armonia e condannarsi a una vita di sofferenza. Sofferenza in primis per gli animali che sono sottoposti a indicibili torture (come ci ha mostrato Report con il caso dei piumini Moncler – e non dimentichiamo che le oche non vengono solo spiumate vive per fare i piumini, ma anche ingozzate crudelmente per ottenere il foie gras) e poi per noi, che sempre più ci ammaliamo per via di quello che mangiamo (quante sono le malattie legate al cibo? Tante, troppe!).
Tuttle, esaminando i più importanti pensatori di tutti i tempi, ma anche gli insegnamenti che possono venire dalla mitologia e dalle religioni, senza dimenticare gli sviluppi più recenti della scienza, propone di abbandonare la tipica alimentazione occidentale, a base di cibo di origine animale, a favore di una dieta a base vegetale, rispettosa dell’ambiente, di tutte le forme di vita e della nostra salute psicofisica. Il tutto senza cadere nei fondamentalismi che, a volte, connotano il movimento veg.
La maggior parte di noi non considera la nostra come una cultura fondata sull’allevamento. Guardandoci intorno, vediamo principalmente auto, strade, sobborghi, città e fabbriche; nonostante nelle campagne esistano vasti campi di cereali e pascoli per i bovini, potremmo non renderci conto che quasi tutti i cereali coltivati sono destinati all’alimentazione del bestiame e che la maggioranza degli innumerevoli miliardi di uccelli, mammiferi e pesci che consumiamo è confinata lontano dai nostri occhi, in enormi campi di concentramento chiamati “allevamenti intensivi”. Sebbene oggi non ci sembri tanto ovvio quanto lo era per i nostri progenitori alcune migliaia di anni fa, fondamentalmente la nostra cultura è, come la loro, una cultura dell’allevamento, sviluppatasi intorno al possesso, alla mercificazione e al consumo degli animali.
Fissazione dei nostri tempi? Non direi proprio. Un popolo come il nostro che si vanta, a proposito e a sproposito, di essere cristiano, dovrebbe rammentare che nel progetto originario di Dio descritto nella Genesi l’uomo era vegetariano: «Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo”» (Gen 1, 29). È solo dopo il peccato originale che nel mondo biblico è entrata l’alimentazione onnivora. Non è sintomatico questo?
Riproduzione riservata © 2024 - GB